PER REGISTRARSI SCRIVERE A ALAXANDAIR(@)MOTOSICUREZZA.COM, togliendo le parentesi.
Prima dell'articolo mi scuso con gli utenti del forum per la mia latitanza, ma essendo questo portale nato da una mia passione...la tesi di laurea e il lavoro vengono prima...e quindi benché io segua il forum, non riesco più a scrivere come un tempo.
Buon Santo Natale e buon inizio 2016 a tutti i lettori e gli utenti!
----
Attualmente è in corso la revisione della norma EN 13595, 1-4, standard di riferimento nel settore motociclistico (fanno "largo uso" della norma gli standard per guanti, per stivali etc.) e non (mondo del kart etc.). Purtroppo è in corso una attività di lobbying volta a diminuire lo standard di protezione, come già avvenuto decenni fa quando dalla norma fu eliminato il livello più sicuro, il 3 ("high performance"). Già attualmente in Francia vengono certificati capi certificati in maniera dubbia; ne abbiamo parlato ad esempio qua e qui, stando ad indiscrezioni simili certificazioni nate da una attività abnorme di alcuni laboratori di certificazione dovrebbero essere a breve utilizzate, ahimè, anche in Italia.
L’attuale norma europea di riferimento per certificare e testare la protezione dei capi per motociclisti è la EN 13595-1 Parti 1-4 del 2002. Questa norma deriva da una serie estesa di studi, condotti specie in Inghilterra, pubblicati in “Performance of Protective Clothing: Fifth Volume, ASTM, 1996”; dagli studi si elaborò prima uno standard non europeo, detto Cambridge Standard, e infine la norma europea.
La pubblicazione della norma europea, benché necessaria e fondamentale, trovò l’opposizione di parte delle aziende del settore già negli anni ’90. Ricorda ad esempio Paul Varnsverry, tecnico inglese e uno dei guru della norma, che avanti la Commissione Europea rappresentanti di aziende portarono una giacca da moto per dimostrare che fosse da intendersi come non protettiva, ma si dimenticarono letteralmente di togliere dal campione le protezioni. Da questa non voluta ammissione si arrivò alla giusta e ovvia conclusione che dei capi di tale genere fossero da intendere come protettivi ed andassero sottoposti a certificazione europea.
Per anni tuttavia la norma europea fu scarsamente applicata, specie in Europa continentale. Negli ultimi anni l’opinione pubblica si è informata sempre di più, anche grazie ad internet (si vedano siti come questo, www.motosicurezza.com, che si può dire essere stato il pioniere nel divulgare informazioni sull'abbigliamento certificato) e ha preso consapevolezza della necessità nonché delle modalità di certificazione e test dei capi per motociclisti. Ma fino a pochi anni fa, nonostante le norme europee, in alcune riviste (ex plurimis, Motociclismo) si trovavano affermazioni che negavano la possibilità di certificare un capo d’abbigliamento per motociclisti. Parallelamente anche le autorità di vigilanza, con la consueta lentezza tipica della burocrazia, hanno iniziato a premere sulle aziende affinché sottoponessero i loro prodotti a certificazione, a meno di venderli come non protettivi, ciò sta avvenendo anche da noi.
Secondo indiscrezioni in Francia tale situazione ha prodotto che alcune marche che vendevano abbigliamento non certificato, come Triumph o Harley Davidson, hanno avuto problematiche di carattere legale. Il mercato francese ha però prodotto una situazione patologica, in cui alcune aziende (e laboratori compiacenti) hanno iniziato a certificare secondo un protocollo nazionale. Prassi illegittima e che trae assolutamente in inganno il consumatore, anche perché tale protocollo offre livelli di protezione ben al di sotto della media europea.
Nel frattempo la norma europea sta affrontando la ciclica revisione, che avviene ogni qualche anno. A tale revisione partecipano, in qualità di rappresentanti dei produttori anche delle aziende, ad esempio Alpinestar e Dainese. Purtroppo dalle indiscrezioni riguardanti la futura norma EN 13595, da pubblicarsi non prima del 2017, emerge come il trend stia seguendo quello del protocollo nazionale francese; ossia si stia cercando di diminuire la protezione offerta dai capi (anche quelli il cui uso sia previsto anche per alte velocità) e quindi la protezione degli utenti. Ad esempio è ipotizzabile come secondo il livello più basso della attuale bozza sia possibile perfino certificare, per alcune zone del capo, del semplice denim (si legga jeans), cosa assolutamente impensabile attualmente. La protezione offerta dai capi, per quanto concerne l’abrasione, potrebbe scendere fino al 70% rispetto alla norma europea di riferimento.
C’è quindi il pericolo concreto che la revisione della norma diventi una scorciatoia per le aziende, specie le meno oneste, volta ad ottenere una certificazione, ora che il mercato è sempre più sensibile alla sicurezza e ora che le autorità preposte stanno finalmente vigilando. E’ impensabile e poco serio che con le tecnologie e materiali attuali (ricordiamo che esistono aziende che certificano da oltre venti anni), a venti anni dall’elaborazione dello standard ora in vigore, alcune aziende non certifichino utilizzando la vecchia scusa, non fondata, dell’ergonomia; è altresì impensabile che in 20 anni non si sia fatto alcuna ricerca e sviluppo (da aziende che venti anni fa hanno contribuito a redarre lo standard, già a loro conosciuto prima!) e che ora, che il tempo stringe, si cambiano le norme, invece che smettere di produrre capi inadeguati, sacrificando la sicurezza degli utenti.
Ho avuto modo, a seguito della pubblicazione su InSella di articoli -allegati a fine articolo- alla cui redazione ho partecipato, di incontrare rappresentanti di aziende italiane, i quali lavorano anche nella commissione di aggiornamento del nuovo standard. Purtroppo ho visto sostenere ancora tesi destituite da ogni fondamento, come "i rischi professionali e non professionali sono diversi", quando i rischi di un postino sul cinquantino sono i medesimi di una quattordicenne che col cinquantino va a scuola. Altre tesi destituite di fondamento, di tipo statistico, sono ad esempio che l'attuale sistema di verificare la resistenza alla abrasione sia non affidabile, affermazione smentita dai dati in mio possesso (che spero di poter pubblicare presto in versione integrale, non posso attualmente per motivi di autorizzazione legale), fornitimi da una piccola azienda che certifica i loro jeans, che mostrano la affidabilità statistica di tale test; non si deve confondere un eventuale errore umano con un errore sistemico nel testing.
Lascio infine parlare gli allegati, che chiaramente illustrano il rischio di dimuzione della protezione degli utenti, se l'attuale bozza sarà effettivamente la norma definitiva.
Immagine 1: differenza di protezione tra il livello 1 attuale e il futuro livello aa
Immagine 2: differenza di protezione tra il livello 2 attuale e il futuro livello aaa
Immagine 3: Tabella riassuntiva della dimuzione percentuale dei futuri livelli aa e aaa rispetto agli attuali 1 e 2.
Immagine 4: definizione delle categorie di protezione nella futura en 13595, ora bozza. Si può notare come si definisce il livello aaa come "contro il più alto livello di rischio", benché molto inferiore all'attuale livello 2 (vedi immagine 3), già inferiore al livello 3 del Cambridge standard di circa il 40 % del massimo; livello a suo tempo definito per il livello più alto di rischio. Notare come i capi b siano senza protettori, mentre i capi c siano con protettori ma senza protezione da abrasione. Benché questo dovrà essere, presumibilmente, scritto sul capo o sul foglietto illustrativo, è probabile che i capi verranno venduti marchiati ce senza avvisare il consumatore finale della minore protezione; ciò lo scrivo poiché è prassi di molte aziende non allegare il libretto informativo ai dpi per motociclisti o allegarlo in maniera incompleta e fuorviante (es.: protettori il cui libretto non riporta scadenza, protettori il cui libretto non riporta i valori di certificazione in termini di forza media residua, giacche con marchio ce mentre solo i protettori sono certificati, giacche vendute come protettive e quindi come certificate -per legge un prodotto "protettivo" è quello "certificato"-, ma che non lo erano etc.).
Ringrazio
Paul Varnsverry e tutto coloro che hanno collaborato per questo articolo e per quelli apparsi su InSella. Ringrazio il Dott. Restelli di InSella per avermi permesso di pubblicare online gli articoli della rivista da lui diretta.